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Totti: “Mia madre disse no al Milan. Ecco tutte le mie verità”

Francesco Totti, ex dirigente della Roma (credits: GETTY Images)

Lunga intervista rilasciata da Totti, dirigente ed ex capitano della Roma, in cui si racconta apertamente. Retroscena anche sui rossoneri.

Stefano Bressi

È già la seconda stagione senza Francesco Totti in campo. Fa strano, ma è così. L'ex capitano della Roma ora è un dirigente giallorosso e qualche settimana fa ha sfidato per la prima volta Paolo Maldini. Forse, fosse stato per lui, sarebbe ancora a correre dietro un pallone. Ai microfoni de "Il Venerdì di Repubblica" ha rilasciato una lunga intervista in cui ha raccontato anche alcuni retroscena sul Milan. Ecco le sue parole.

Se ora si annoia: "Ancora no. Le giornate sono quasi come quelle da calciatore. Mi sveglio, porto i figli a scuola, poi vado a Trigoria, sto col mister, la squadra, seguo tutti gli allenamenti. Dopo pranzo torno e mi dedico ai ragazzi".

Perché non ha finito in Asia o America: "Perchè avrei rovinato 25 anni di carriera. Ho sempre detto che avrei indossato un'unica maglia. Sono uno di parola".

Quando il Milan lo voleva a 12 anni per 300 milioni: "In quel caso il 'No' fu della mia famiglia. Soprattutto di mia madre. È vecchia maniera: apprensiva, possessiva. Papà lavorava fino a tardi. Era sempre lei a starmi dietro. Non voleva che mi allontanassi. Mi voleva tutto per sè".

Cos'era Paperell: "Un gioco inventato da noi. All'entrata della scuola Manzoni c'erano gradini lunghi quasi 50 metri. Uno doveva scenderli percorrendoli tutti in orizzontale mentre altri due cercavano di beccarlo col pallone tirando da una decina di metri. Bell'esercizio di mira".

Da solo a casa da ragazzo si fingeva morto per paura dei ladri: "Pensavo che a un ragazzino morto un ladro non gl'avrebbe fatto niente".

Sugli zerbini rubati dopo essere diventato famoso: "C'era sempre gente accampata sotto casa o sul pianerottolo. Era diventato impossibile. Non solo per me, ma per tutto il palazzo".

Sulla Curva Sud: "Dopo un Roma-Napoli ci furono scontri. Scappai. Quando sono tornato per recuperare il motorino era disintegrato. Da tifoso non avevo grandi rapporti con i capi della curva. Li ho conosciuti da giocatore: qualcuno ha parecchi casini alle spalle. Altri no, o di meno. C'è di tutto".

Sul fallaccio a Balotelli: "Quello arrivò dopo un crescendo. Erano anni che lui provocava, insultava me, i romani. Un continuo. Alla fine la cosa è esplosa. Fu un fallo orrendo. Proprio per fargli male. Ma dopo, stranamente, i giocatori dell'Inter non mi assalirono. Mentre uscivo dal campo per l'espulsione, Maicon mi diede addirittura il cinque. La sensazione era che anche tra i suoi compagni interisti Balotelli creasse qualche irritazione".

Su Balotelli: "È il suo carattere e sarà difficile cambiarlo, anche se adesso è un po' migliorato. Mancini ha fatto bene a riprenderlo in Nazionale, il talento c'è. Poi però tutto dipende dalla testa".

Su Cassano, che ha anche vissuto con lui: "C'è rimasto quasi quattro mesi. Faceva dei regali incredibili a mia madre... Anelli, bracciali da 5-6 mila euro. Manco fosse la moglie. Se mi vedeva a cena con amici al ristorante pagava non solo per me ma per tutti. Non lo faceva per comprare il mio affetto, ma perchè è fatto così. Adesso spende di meno perchè sennò la moglie lo mena. Ma quand'era single era incredibile. Litigammo perchè gli era sparito l'assegno dello stipendio e s'era messo in testa che a rubarglielo fosse stata la nostra domestica. Per lei avremmo messo la mano sul fuoco e poi era incassabile solo da lui. Se ne andò. Qualche giorno dopo l'assegno fu ritrovato sotto il sedile della sua macchina. È il calciatore più forte con cui abbia giocato".

Se è vero che non voleva altri campioni alla Roma: "Discorsi da bar. Se i campioni non arrivavano era per limiti di budget, mica per scelta mia. Io ho sempre voluto vincere, e non veder vincere".

Su Zeman e Capello: "Zeman sembra un tipo ombroso, ma appena lo conosci ti ci diverti da morire. Certo per capirlo quando parla ci vuole un po'... Quando fa un discorso ogni tanto ti addormenti. Quando parli con Capello hai sempre torto. Sa tanto ma l'ultima parola deve sempre essere la sua. Se passa un piccione e lui dice che è un gabbiano ti dimostrerà che è un gabbiano. In ritiro cercava le ragazze negli armadi, nella doccia, pure sotto al letto".

Quando si è rifugiato in un convento dopo lo Scudetto: "Ero a cena con parenti e amici in un ristorante quando cominciamo a sentire un boato di folla. S'era sparsa la voce che ero lì. A un certo punto mi affaccio: di sotto cinquemila persone bloccavano le strade. Volevano entrare. Il proprietario mi dice: non c'è una seconda uscita, l'unica è scavalcare l'inferriata e scappare da su, dalla parte del convento. Con tre o quattro amici c'arrampichiamo sulla scarpata nel buio tra le piante. Appena salta la recinzione mi dico: se qui c'è qualche cane da guarda ci sbrana. Invece arriva un frate. Mi illumina la faccia: "Ma tu sei Totti". Prima di farci uscire m'ha chiesto l'autografo".

Se si è pentito del no al Real: "No, ma decidere fu durissimo. Rimasi anche per Ilary. Stavamo insieme da poco e a me non piacciono i rapporti a distanza. Prima o poi finiscono sempre".

Quando ha rosicato di più: "Quando prendemmo un gol all'ultimo dallo Slavia Praga e non andammo in semifinale Uefa. Poi qualche derby e la finale dell'Europeo persa con la Francia. In quell'Europeo avevo davvero scommesso con Maldini, Nesta, Di Biagio che se fosse finita ai rigori la semifinale avrei fatto il cucchiaio. Mi sfottevano: parli così in allenamento, in partita è diverso. Ma il giorno dopo, quando andando verso il dischetto dissi che avrei mantenuto la parola, mi scongiuravano di ripensarci: Sei scemo? Guarda che se lo sbagli c'ammazzano!".

Se incollava le figurine dei laziali al contrario: "A testa in giù. Uniche di tutto l'album".

Su San Siro: "È il mio secondo stadio preferito. Ti fischiano ma c'è rispetto. Quando negli anni dei Maldini o dei Kakà partivamo per Milano ci facevamo il segno della croce: quanti ce ne fanno stavolta? Tre? Quattro? Cinque? Oggi gli equilibri sono un po' cambiati".

Quando ha capito fosse il momento di smettere: "Non è stato un mio pensiero, ma una cosa voluta dalla società. È l'unica ombra che s'è creata tra me e la Roma. Perchè un conto è decidere con la propria testa e un altro farsi mettere i paletti da altri. Certo, mi rendo conto che finché stai lì non vorresti mai smettere. Ma non pretendevo di continuare 60-70 partite all'anno. Volevo solo restare a disposizione. Spalletti è quello che ha spinto di più. Con la società erano una cosa sola".

Sul lavoro di mediatore tra allenatore e squadra: "Sì. I giocatori sono bestie, sono bastardi, ma mi portano rispetto. Io ero come loro, li conosco bene, conosco il loro linguaggio segreto fatto di occhiate, mezze parole. E cerco di rendermi utile. Nello spogliatoio adesso si parla quasi solo inglese. Se non lo sai non capisci. E si fa meno gruppo. In ritiro ognuno si isola in camera sua col telefonino... A navigare, a mandare messaggi".

Che voto dà alla sua carriera: "Nove e mezzo. Se avessi vinto la Champions, dieci".

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