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Prati: “Roma-Milan, un pareggio non serve a molto. Occhio a Ünder e Suso”

Pierino Prati
Pierino Prati, ex attaccante di Roma e Milan, in esclusiva al 'Corriere dello Sport' ha raccontato anche aneddoti del suo passato rossonero e giallorosso

Daniele Triolo

Nato a Cinisello Balsamo il 13 novembre 1946, Pierino Prati è cresciuto nel settore giovanile del Milan, squadra con la quale ha giocato, fino al 1973, 209 gare con 102 reti all'attivo e vinto uno Scudetto, due Coppe Italia, due Coppe delle Coppe, una Coppa dei Campioni ed una Coppa Intercontinentale; nel 1973, quindi, il trasferimento alla Roma, dove è rimasto fino al 1977, collezionando 110 gare e segnando 41 gol.

Chi meglio di lui per presentare ? Prati si è concesso in esclusiva ai microfoni del 'Corriere dello Sport – Stadio', raccontando degli aneddoti molto interessanti sul suo passato da calciatore nella fila di Roma e Milan. Queste le sue dichiarazioni più importanti:

Sul soprannome 'La Peste': “Nelle prime partite che giocai con il Milan feci vari gol nel finale, gol che per gli avversari era difficile recuperare. Gianni Brera amava me e Gigi Riva: gli piacevano i giocatori forti fisicamente, potenti, acrobatici. Dunque è saltato fuori questo, 'La Peste', ma non so se sia stato Brera, come per Riva 'Rombo di Tuono', o i tifosi”.

Sull'allenatore più importante della sua vita: “Sicuramente Nils Liedholm. Ha inciso moltissimo sulla mia crescita tecnica e tattica. Era un tecnico per il quale tutti gli allenamenti erano con il pallone, voleva sempre vedere bel calcio. Ho vissuto sei anni nel settore giovanile, salendo sempre di categoria ogni anno. Poi c'è Nereo Rocco, che costruì una squadra eccezionale con un mix di giovani e giocatori molto esperti: un gruppo che nel giro di un anno e mezzo vinse tutto”.

Sul Milan del 1968 tra le squadre più forti del calcio italiano: “Non solo di quello italiano. Vincevamo contro tutti, battevamo chiunque. Personalmente l'unica vittoria che mi manca è quella dei Mondiali”.

Sulla tripletta in Milan-Ajax, finale di Coppa dei Campioni del 1967: “Racconto un aneddoto. Andando allo stadio, sul pullman quel giorno non si sentiva una mosca volare perché c'era tensione grandissima. Rocco avvertì l'atmosfera che c'era sul pullman, interpretò quel silenzio, allora si alzò in piedi e disse forte: 'Ragazzi, chi se non la sente di giocare rimanga pure sul pullman, non abbiamo bisogno di paurosi'. Poi siamo andati negli spogliatoi e mancava una persona: era Rocco. Lo hanno trovato seduto da solo, sul pullman. Aveva trovato il modo di sdrammatizzare. Sui gol? La notte non ho dormito. Dovevo fare gol. Una finale è una rarità nella vita di un calciatore. Era cominciata male, con un palo su un mio diagonale dopo pochi minuti. Ma era l'inizio, dopo abbiamo giocato alla grande. Gianni (Rivera, n.d.r.) era la mente, io il braccio: io sapevo che lui avrebbe messo la palla dove l'attaccante si era liberato. Matematica. Il secondo gol fu il più bello: Gianni prese palla e la portò al limite dell'area, poi mi smarcò con un colpo di tacco ed io dai trenta metri l'ho messa forte a mezza altezza alla sinistra del portiere. Nel terzo sono stato un po' cattivo, perché l'ho segnato di testa bruciando Hamrin e Sormani”.

Sulla finale di Intercontinentale contro l'Estudiantes: “Un macello. Già a Milano ci avevano picchiato nel sottopassaggio. Mentre aspettavamo l'arbitro, ci davano calci, volavano sputi, ci volevano intimidire. Alla Bombonera durante il riscaldamento, ci tiravano i palloni addosso, ci insultavano. Durante la partita ebbi una commozione cerebrale, rimasi a terra ed il portiere Poletti, poi squalificato a vita, si fece una corsa di 50 metri per venirmi a dare un calcio in testa. Combin, di origine argentina, era considerato un traditore. Vennero anche dei poliziotti a prenderlo a fine partita. Noi ci rifiutammo di partire senza di lui. Fu una vittoria amara, perché quello non era calcio”.

Sul suo addio al Milan: “Quell'anno abbiamo perso lo Scudetto, io giocai fino a metà campionato e in quel momento ero in testa alla classifica cannonieri. Poi nella seconda parte mi sono curato facendo punture, ma non riuscivo ad uscirne. Tornai a giocare dopo due mesi ma al primo salto di testa fu come se si fossero staccati i muscoli dal pube. Un dolore pazzesco. Sentirmi dire dalla società che stavo fingendo fu una ferita enorme. La verità è che Buticchi voleva vendere me e, si diceva, che pensasse di vendere anche Rivera. Andai via dal Milan incazzato nero, perché non credere al dolore che provavo fu ingiusto e offensivo. Fui ceduto alla Roma: lì ho giocato il primo anno con un cinto, con delle gocce di acciaio che mi spingevano il muscolo all'inguine per cercare di sopportare il fastidio che avevo. L'anno dopo sono stato bene e sono riuscito a fare 22 gol: farli a Roma era come averne fatti 30-40 a Milano. Quell'anno si è creato un rapporto eccezionale, soprattutto con i tifosi della curva. La stagione del terzo posto è sicuramente nel cuore di tutti i tifosi giallorossi. C'era Liedholm che aveva sostituito Scopigno”.

Su Agostino Di Bartolomei: “Un ragazzo tenerissimo, un grande. Era un adulto. Sembrava un universitario del pallone, era veramente al di là della sua età. Quando giocava con me aveva 18-19 anni, ma si comportava come se ne avesse 34-35. Grande carattere, grande forza fisica. Peccato sia finita così”.

Sul gol più bello della sua vita: “Al Varese, quando ero alla Roma: schiena alla porta, mi sono fatto superare dal pallone e poi ho calciato da trenta metri all'incrocio. Non male”.

Su Roma-Milan di domani: “Una sofferenza, perché vorrei facessero punti tutti e due. Potrebbero pareggiare, ma non credo serva a molto pareggiare. Sono due squadre che cercano sempre di vincere”.

Sui giocatori di Roma e Milan che gli piacciono: “Il turco Cengiz Ünder mi sembra abbia qualità. Serve quello all'Olimpico. Al tifoso romanista puoi chiedere tutto se ti impegni, se fai vedere che dai tutto per la squadra. I tifosi giallorossi non amano gli abulici, gli scansafatiche, i furbi che non onorano la maglia. Nel Milan credo che quella che incida di più sia Suso, in due anni è cresciuto molto. Ora sa benissimo che non lo marcano più con un solo uomo, ma con una catena di due o tre per non farlo partire, perché una volta libero ha un tipo di tiro molto difficile. Infatti segna di più dell'anno scorso e può crescere ancora”.

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