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INTERVISTE

Milan, le confessioni di Maldini: “Dirigente altrove? Ho una regola …”

Intervista AC Milan Maldini
Paolo Maldini, ex giocatore ed ex dirigente del Milan, ha parlato in esclusiva a 'Radio TV Serie A con RDS': ecco le sue dichiarazioni
Daniele Triolo Redattore 

Paolo Maldini, ex calciatore ed ex dirigente del Milan, ha rilasciato una lunga intervista al giornalista Alessandro Alciato per 'Radio TV Serie A con RDS' nell'ambito del format 'Storie di Serie A'. Ecco, dunque, qui di seguito, le dichiarazioni dell'ex capitano rossonero.

Ex Milan, le parole di Maldini nell'intervista con Alciato

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Sul suo presente: "Vivo bene. Dopo cinque anni intensi mi sono dovuto abituare a un ritmo diverso ma che ho avuto anche nel 2009 dopo il ritiro fino al 2018 quando ho iniziato da dirigente".


Su cosa è stato, cos'è e cosa sarà il Milan per Maldini: "Il Milan era presente prima che io nascessi, mio papà è stato calciatore e capitano negli anni '60. Il calcio era presente. Per me il Milan è la squadra della mia città, l'ambiente dove sono cresciuto, ho iniziato a 10 anni e ho smesso a 41. Va al di là del tifo e del lavoro, è estrema passione. A questo punto non cambierà, il rapporto va al di là delle ere in cui sono passato".

Su cosa significa essere milanista: "Credo che in ogni squadra, visto che si parla di passione, ogni tifoso rivendica qualcosa di diverso: noi milanisti abbiamo un passato glorioso con delle cadute ma poi alla fine è più facile che i tifosi si ricordino i momenti brutti per tornare a quelli belli".

Sulle sue vittorie in casa: "Durante la pandemia, ho allestito con le medaglie che avevo nei cassetti. Il primo anno di Serie A ho fatto una collezione di maglie bellissime ma poi ho smesso, non so perché (ride, n.d.r.)".

Su chi si sente realmente: "Io mi considero Paolo, sono nato così e cerco di vivere la mia vita basandomi sulla fortuna della famiglia che ho avuto, aver incontrato alle persone giuste. Sarò sempre riconoscente agli ambienti che mi hanno aiutato a crescere, soprattutto il Milan, e a capire quanto cose nella vita.  Anche la mia ultima esperienza da dirigente mi ha fatto apprezzare le cose che non conoscevo. Nel calcio uno pensa di saper tutto, ma quando passi dall'altra parte hai una prospettiva completamente diversa. Cose che ho dichiarato da calciatore, poi passando dirigente le avrei volute cancellare".

Sul sentirsi 'custode del milanismo': "Non lo so. Forse lo diranno gli altri. Di sicuro il calcio in generale e il Milan in particolare mi hanno insegnato tanto come valori e come principi. Quando hai la possibilità di lavorare per questo club ne devi tenere conto. Va al di là del risultato. Quando si tratta di una storia ultracentenaria, va studiata, conosciuta e rispettata. La mia è una situazione particolare perché parte dagli anni '50".

Sul figlio Daniel: "Purtroppo è un destino dal quale non si scappa. Ha iniziato a giocare liberamente ed è successo quello che è successo a me, c'era un papà ingombrante. Nei primi anni volevano solo divertirsi. Sapeva lui come Cristian a cosa andava incontro: se avessi potuto dare a loro anni più sereni, lo avrei fatto. Lo sport è molto democratico, alla fine va avanti chi ha dei valori. Deve essere uno stimolo sennò la pressione diventa troppo forte, ai miei tempi era un pochino diverso".

Sulla responsabilità che ha nell'essere simbolo della storia del Milan: "Non sento questa cosa. Quando sei all'interno della società il ruolo te lo impone. Ma quando vado in giro mi sento Paolo. Credo che comunque la gente negli anni ti apprezzi anche come persona e non solo come calciatore: ho provato a scindere le due cose. E' una questione di disciplina, il calcio dovrebbe insegnartelo".

Su quando è diventato milanista: "A me piaceva il calcio, sapevo del passato di mio papà naturalmente. Amavo la Nazionale e la prima competizione è stato il Mondiale del 1978 che era la Juventus più Antognoni e mi sono appassionato a quei giocatori: ho seguito la Juve come se fosse la Nazionale. Ma nel '78 ho fatto il provino al Milan e le cose sono tornate come dovevano essere".

Su Paolo Maldini da piccolo: "Sono stato un ragazzo molto vivace, molto curioso. Si viveva molto per strada e la strada ti dava tanti insegnamenti ma anche pericoli: mi sono mosso bene da quel punto di vista. Mi ricordo della scuola, dell'oratorio, dei giardini e dell'avere un sacco di amici con cui andavamo in giro per strada. Ho imparato ad avere gli occhi aperti, credo sia fondamentale essere a conoscenza di quello che è attorno. Anni '80? Dal punto di vista lavorativo sono arrivato in Serie A con il Milan. La vita di quegli anni era molto particolare, la combinazione calcio-moda-Milan c'era e ho avuto la fortuna di conoscere Armani, Versace... Al futuro si guardava sorridendo, era bella da vivere".

Sul suo rapporto con la città di Milano: "Il milanese si sente perfetto per Milano, va scoperta piano piano. Una volta che ci vivi, inizi a girarla e scoprirla e ti fa innamorare. Io sono una persona discreta e vedo in Milano tante mie caratteristiche. Siamo simili nella discrezione e nell'essere riservato, mi ci rispecchio: come anche nella bellezza nascosta delle cose. Poi a Milano ho avuto la famiglia e ho trovato la possibilità di giocare in una squadra che aveva le mie stesse ambizioni. Se non fosse arrivato Berlusconi e le ambizioni di vittoria potevo andare altrove. Mi piace camminare, andare nelle vie di Brera".

Sul suo provino con il Milan: "Mi ricordo bene, mi ha accompagnato mio papà. Si poteva fare solo dopo i 10 anni. C'era un fotografo ... Non avevo mai giocato a 11 e mi chiesero che ruolo facessi: io mi sono messo ala destra. Subito dopo la fine del provino un allenatore si avvicinò e mi fece firmare il famoso cartellino che mi legò al Milan per tantissimi anni".

Sul passaggio da ala destra a difensore: "Ho fatto i primi due tre anni ho fatto ala destra e sinistra, poi a 14 anni mi hanno messo terzino destro. Tutta la carriera nelle giovanili le ho fatte a destra. A 15 anni ho fatto amichevole con la prima squadra e quando ho compiuto 16 anni sono stato convocato con il ritiro della prima squadra, con Liedholm. Se penso a quel provino penso all'inizio della mia storia con il Milan. Mi piaceva giocare ala destra, dribblare. Credo che giocando in diversi ruoli tu possa sviluppare determinate caratteristiche che poi nel calcio moderno non esiste più. Non esisteva tattica, esistevano concetti come l'uno contro uno sia in difesa che in attacco. La prima tattica l'ho fatta in prima squadra".

Sulla troppa tattica nelle Scuole Calcio: "Non condivido assolutamente questa filosofia, c'è tempo per imparare la tattica, meno tempo per imparare la tecnica. Se tu non sviluppi disciplina fai fatica ad adattarti. Per la tattica c'è tempo, quello che hai imparato oggi può cambiare: c'è un'evoluzione continua. Vediamo tante partite bloccate e si aspetta il giocatore che fa l'uno contro uno. Alla fine si ritorna sempre lì. Quando Daniel ha iniziato a giocare c'era un allenatore che per un anno ha fatto solo dribbling e uno contro uno: ho pensato fosse intelligente e credo che questa cosa vada insegnata".

Sul suo esordio in Serie A, Udinese-Milan del 20 gennaio 1985: "Liedholm mi ha detto 'Malda, entri' e mi chiese se volessi giocare a destra o sinistra. Sono entrato a destra e ho giocato 45 minuti, per me è stato come un sogno. La ricorrenza del 20 gennaio la fanno rivedere sui social ed è normale ricordarsi quei momenti lì, ci penso ogni tanto. Non sono tanto legato alle cose successe: sono legato alle relazioni con le persone, soprattutto nei momenti di vittoria e sconfitte, la cosa bella del calcio è che devi condividere".

Su cosa gli ha insegnato Liedholm: "Liedholm mi ha insegnato a giocare a calcio con una visione moderna. Mi disse che dovevo ricordarmi sempre di dovermi divertire. In Serie A vedo che c'è tanta passione ma ognuno la esprime in maniera diversa. E' dura fare il calciatore, c'è una competizione importante. Se perdi questa gioia non riesci a migliorare: ognuno alla propria maniera".

Su cosa gli ha tolto la carriera: "Mi ha tolto magari un pezzo di gioventù. Ma si può dire? No, lì è iniziata la mia disciplina, l'idea del sacrificio. Poi mi ha realizzato in una cosa che volevo fare. Non si può dire che il calcio mi ha tolto qualcosa. Una cosa che mi ha tolto è la mia abilità fisica: ho giocato per 3 o 4 anni ma per me è impossibile oggi muovermi e correre. Riesco a giocare a tennis... Ho giocato un torneo ATP con una wild card che si gioca nel mio club: io e il mio maestro abbiamo vinto il torneo interno e abbiamo poi perso al primo turno con la coppa testa di serie".

Su Silvio Berlusconi: "Ha portato un'idea moderna, visionaria del calcio e del mondo in generale. Nel primo discorso ci disse che la nostra squadra giocasse il miglior calcio del mondo, che giocasse allo stesso modo in casa e fuori casa e che saremmo diventati presto campioni del mondo. Faceva un po' sorridere, ma dall'anno dopo è cambiato tutto: dalla palestra all'alimentazione, da Milanello, da prendere un allenatore diverso rispetto agli altri, ai preparatori. Aveva già immaginato una struttura adatta. C'è sempre tanta diffidenza per l'imprenditore che entra nel calcio, magari economicamente molto forte. Difficile quando ha preso Sacchi e i primi due mesi con Sacchi: tutto il resto era fatto per farci crescere come persone. Sacchi ha stravolto l'idea di come ci si doveva allenare, come si doveva giocare. Il fatto che non avesse fatto ancora nulla di alto livello nel calcio ha creato qualche dubbio. Poi abbiamo iniziato a volare con lui, quando abbiamo iniziato a capirlo".

Sull'idea più innovativa che ebbe Berlusconi: "Piaceva molto la sua idea di giocare bene vincere e rispettare l'avversario. Quando diceva che se non vince il Milan, gli faceva piacere che vincesse l'Inter: lo credeva veramente ma questa idea di essere onesto e arrivare al risultato attraverso il duro lavoro e una visione diversa, e comunque accettare che vinca l'avversario... Lui aveva anche il distacco emotivo".

Sul rapporto con Berlusconi deteriorato nel tempo: "No. Ci piaceva far battute, sono diventato amico di Piersilvio, siamo usciti tante volte e sono stato ad Arcore. Mi ha sempre detto che è stato il suo secondo padre, anche con Galliani. Prima di iniziare il pranzo l'ho ringraziato per quello che hanno fatto per me, per il Milan e per il calcio in generale. Quando è stato ricoverato in ospedale, mi ha chiamato perché voleva fare degli scambi tra Monza e Milan, conosceva benissimo i giocatori: il mio rapporto è sempre stato super. Il calcio lo ha vissuto come veicolo e come passione: si sente e si trasmette questo. Un ambiente vincente lo crea la città, il ruolo di lavoro e le persone. Le relazioni sono importanti, lasciano sempre un segno".

Su Arrigo Sacchi: ""Noi ci siamo messi a disposizione ma è stato durissimo, fisicamente e mentalmente. Non c'era conoscenza dal punto di vista fisico, sono andato in overtraining per mesi, era una cosa da calibrare. All'inizio in partita non puoi rendere e hai alti e bassi. C'erano tanti alti e bassi. MI chiedevo se era giusto quello che stavo facendo. Piano piano è arrivato l'adattamento. Spesso arrivavo al venerdì e mi chiedevo come facessi a giocare la domenica. Ma tutto questo ha alzato il livello ed è stato un bene per tutti noi. Dopo un mese e mezzo, quando abbiamo vinto a Verona abbiamo cominciato a sentire nelle gambe e nella maniera di giocare qualcosa di diverso. Il Milan aveva dei grandi giocatori quegli anni, il fatto di avere la difesa più forte di sempre è stato un vantaggio".

Sul perché è finita con Sacchi: "Quando trovi un allenatore così esigente che deve gestire un gruppo, è un prodotto che ha una scadenza. Quando sei così ossessionato, ti consumi facilmente. Paragone con Conte? E' così. Tutti quegli insegnamenti li adatti e te li porti dietro".

Su Fabio Capello: "Era un uomo di campo. Ti dava piccoli esempi di cose da fare in campo, sempre. Ti forma come calciatore perché lui le ha provate sulla sua pelle, era molto pratico. Ha proseguito nel lavoro di Sacchi. Quella squadra lì era la formazione più forte nei titolari e nelle riserve. Ha aggiunto praticità a un concetto a volte utopistico come quello di Sacchi: una perfetta combinazione. Liedholm, Sacchi, Capello: se fossero arrivati in un  altro ordine, ci sarebbe stato più casino per la mia evoluzione".

Sulla fascia da capitano ereditata nel 1997: "Devo dire che nel 1997 avevo 29 anni ed era 13 anni che giocavo in Serie A, da tre anni, ero capitano della Nazionale. Mi ero abituato a quel tipo di ruolo. Farlo in maniera quotidiana era diverso. Momento o discorso più duro da capitano? Parlo molto più adesso, ero più riservato".

Sulla coppa più bella che ha vinto: "La prima è indimenticabile, tutte belle perché distribuite non nel corso di tre anni fantastici ma 20 anni. Questa è la fortuna: la prima da capitano, a Manchester, arriva 9 anni dopo l'ultima alzata. Forse è stata la più ambita".

Su Carlo Ancelotti, ex compagno di squadra poi allenatore: "Ci si comporta in maniera naturale. Lo chiamavo mister o Carlo. C'era un rapporto tale per cui non c'era bisogno di dire tante cose, le cose vengono naturali. Fa vedere che è la persona più tranquilla del mondo. Prima delle partite importanti si sedeva e mi diceva che mi guardava e si sentiva rilassato. E io rispondevo che la stessa cosa era per me".

Sul giocatore più forte con cui ha giocato: "Non posso dirtene solo uno. Come forza morale e caratteristiche difensive, Baresi era un giocatore pazzesco, era perfetto. Ho avuto la fortuna di giocare con Van Basten, giocatore incredibile. Tanti giocatori non sono arrivati in momenti idilliaci: Ronaldo e Ronaldinho tecnicamente erano fortissimi".

Sull'avversario più forte incontrato: "Ronaldo dell'Inter. Mi piaceva fare uno contro uno ma con lui era dura: non si fermava, anche se le regole erano più permissive. Ma lui era grosso, veloce e tecnico... Molto difficile".

Su un 'no' che è stato difficile da pronunciare nella sua carriera da calciatore: "No, solo momenti delicati all'interno del mio club. Le cose non andavano bene e c'era amarezza da parte mia. Ma questo mi porta a cercare di migliorare la situazione. In quegli anni lì il Milan era la squadra di riferimento".

Sul rimpianto di non aver mai vinto il Pallone d'Oro: "Una cosa giornalistica. Come posso pensare che ci sia un'ingiustizia della mia carriera. Non ho mai vinto neanche un Mondiale o un Europeo. Per me la certificazione sono altre cose".

Sull'essere il 'calciatore più perdente della storia': "Nasce da un discorso più ampio. Ma c'è un fondo di verità: le vittorie passano attraverso le sconfitte. Recentemente ho visto che ho perso otto e nove finali, sono tante. Questa cosa si può dire anche per Federer".

Su Istanbul 2005, ferita ancora aperta: "No, basta. Dopo Istanbul c'è sempre Atene. Anche lì il calcio ti insegna tante cose che ti porti nella vita. Mondiale 2006? Ho giocato quattro Mondiali... Vedevo che facevo fatica e volevo preservare gli ultimi anni e non volevo essere un peso, avevo già detto di no a Trapattoni per l'Europeo del 2004".

Sul inizio da dirigente nel Milan: "Mi hanno chiamato, non sempre è ben chiaro quello che volevo fare. Ma è chiaro quello che non volevo fare: allenatore, lavorare in televisione... Quando è arrivata l'opportunità - era arrivata anche prima ma grazie a Dio l'ho analizzata bene (con i cinesi, n.d.r.) - con Leonardo è stato perché ho lavorato con una persona che aveva gli stessi ideali. Ho deciso perché era il Milan. Poi ho avuto tante esperienze, di cose da raccontare e da insegnare. Poi c'è il lavoro in sè che è tutt'altro da quello che ti aspetti: c'è anche un periodo di adattamento che è durato 10 mesi".

Sul suo futuro da dirigente: ancora Milan o Nazionale: "Una regola che vale soprattutto per l'Italia. Vedermi all'interno di un club diverso dal Milan non ce la faccio, non ce la farei. Non ho mai detto di no a nessuno. Sono stato due o tre volte da Nasser Al-Khelaïfi al PSG prima del Milan ma non è andata bene e pensandoci oggi è stata una fortuna. I miei primi 10 mesi da dirigente al Milan sono stati di apprendimento, mi sentivo inadeguato. Non riuscivo a determinare qualcosa, Leonardo rideva perché glielo dicevi ogni giorno. Per me è stata una fortuna".

Se va allo stadio a vedere il Milan "No, ma è logico. Seguo però il Milan, così come il Monza, l'Empoli, le squadre di mio figlio".

Sul giocatore che lo emoziona: "Tutti. E' una questione di relazioni. Abbiamo creato un sacco di relazioni con i giocatori che sono arrivati, non solo una squadra vincente. Quando vedo la fascia sinistra del Milan è uno spettacolo".

Su cosa ha avuto in più l'Inter quest'anno: "Ha una struttura sportiva che determina il futuro dell'area sportiva, è stata gratificata con contratti a lunga scadenza. C'è stata una strategia. Non è un caso che il Napoli sia andato male con l'addio dell'allenatore e del direttore sportivo. I giocatori devono avere dietro qualcosa o qualcuno che li aiuti a produrre. Hanno bisogno di supporto".

Sul passato che fa troppa paura nelle società: "A volte sì, ma a volte non è detto che avere un grande passato da calciatore ti debba dare un presente da dirigente, sono due lavori differenti. Quando mi hanno chiamato ho chiesto se fossero sicuri. Perché vanno presi i pro e i contro".

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