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Caldara: “Al Milan il primo blackout: iniziò anche il declino personale”

intervista Caldara AC Milan

Mattia Caldara, difensore del Milan in prestito al Venezia, si è raccontato a 'Cronache di spogliatoio': le sue dichiarazioni più importanti

Daniele Triolo

Mattia Caldara, difensore del Milan in prestito al Venezia, si è raccontato a 'Cronache di Spogliatoio', rivelando alcuni aneddoti interessanti sulla sua carriera.

Su Andrea Petagna, per esempio, ha detto che è stato "un vero amico". Pensate che quando mi sono trasferito al Milan, in pieno agosto, mi ha prestato la sua casa per un mese perché non riuscivo a trovarne una disponibile. Sarò sempre pronto ad aiutarlo in futuro, anche prestandogli casa mia! Che alchimia. Bastava uno sguardo, anche in campo. Quella squadra si capiva in un attimo. Una cosa rara".

Caldara ha poi evidenziato: "Quando sono andato alla Juventus, e poi al Milan, ho capito che quel concetto di famiglia è più incentrato e traslato sul singolo. Lì ogni passo viene analizzato, fa notizia. Venivo da un gruppo in cui ogni tuo compagno era tuo fratello, i big invece pensano più a loro stessi". Uno dei big con cui ha giocato è stato Gonzalo Higuaín.

"Io ero agitato il giorno in cui mi hanno presentato al Milan. Era anche il giorno di Higuaín - ha ricordato Caldara -. Non sapevo dove mi stessero portando, il team manager mi diede una maglietta e io chiesi: «Cosa devo fare? Autografarla?». Mi rispose: «Aspetta e vedrai». Salimmo su un palazzo in Piazza Duomo, mi affacciai e vidi una schiera di persone sotto ad applaudirci, cantare cori. Folle. Lui era pronto, io no. Mi sono goduto il momento, ma se me lo avessero detto prima probabilmente non sarei salito lassù. Non faceva per me".

Quindi, il difensore classe 1994 ha raccontato il suo primo infortunio con il Diavolo. "Arriva un sabato, un sabato come gli altri. C’è allenamento, durante uno scatto sento un dolore lancinante al tallone. Penso: «Chi diavolo mi ha colpito?». Mi volto, ma c’è solo Patrick Cutrone a due metri di distanza. «Come ha fatto a prendermi!?», non capisco. E invece realizzo che no, non è stato nessuno. Il mio tendine d’Achille aveva ceduto. Non avevo sensazioni pregresse, fastidi, dolore. Quella è stata la prima, vera botta mentale. Ho compreso che non sarebbe stata una cosa da poco. Non sapevano se operarmi, erano giorni confusi e io ero in balia di tanti punti interrogativi. Il tendine era ancora attaccato al 10%, volai in Finlandia dal prof Orava che mi consigliò di non operarmi. Così sono stato 50 giorni con il gesso: fermo, immobile, senza poter fare niente. Privato per la prima volta di giocare a calcio. E per noi calciatori, il calcio è la vita. Un primo blackout. Mi misi l’anima in pace: non c’era niente da fare".

Caldara ha poi proseguito raccontando il calvario che ha vissuto all'epoca della sua esperienza nel Milan. "Dopo 5 mesi inizio a stare meglio. Era ormai aprile. In allenamento sento che ancora non è finito tutto, ma miglioro. Finalmente torno in campo: c’è la Coppa Italia contro la Lazio. Durante la partita sembrava che nei mesi precedenti non fosse accaduto niente. Mi sentivo bene, eccome. Tutto il dolore si era sciolto all’improvviso: «Cavolo, sto così bene…». In settimana mi alleno al massimo, fiducioso. Ero appena tornato dopo 150 giorni senza calcio. Faccio un contrasto e niente, il legamento crociato collaterale decide di cedere. Buio. Mentalmente era come se fossi stato colpito da un meteorite. Da una spada che mi aveva appena trafitto. Lo sentivo: c’ero quasi. E invece eccolo, di nuovo, il baratro. Una botta ancora più dura della prima. Maligna, ipocrita".

"Era maggio, avevo già perso una stagione, quella del grande salto. Mi servirono alcuni giorni per realizzare. Proprio in quel momento iniziò anche il declino personale. Andai a Roma per fare riabilitazione, tornando a Milano a settembre inoltrato. Mister Marco Giampaolo, di fatto, non l’ho neanche conosciuto, perché quando iniziai a essere più presente a Milanello, lui fu esonerato. Arrivò Stefano Pioli. Erano passati già tre mesi, ne servivano ancora due. Feci due amichevoli con la Primavera, ma lo sentivo: il ginocchio non stava bene. Sicuramente non era al 100%. Serviva tempo. Ancora", ha ricordato il difensore bergamasco.

Tornato all'Atalanta, ha accusato, come si ricorderà, un infortunio al tendine rotuleo. Finendo di nuovo nel baratro. "Non era normale, così tanti infortuni. Ho cambiato le mie abitudini, provando a migliorare la mia vita: o geneticamente ero di carta velina, o c’era qualcosa che non andava. Cercavo questo errore in ogni parte di me. Mangiavo più verdura, curavo minuziosamente il riposo. Iniziai un percorso interiore insieme alla mia compagna, Nicole. Un cammino di riflessione personale. Lei mi vedeva soffrire: non ero più la stessa persona che aveva conosciuto. Scivolavo giù, nella corrente, trasportato senza diritto di reazione. Anche lei non stava bene. «Mattia, hai 25 anni e ami il tuo lavoro, ma non riesci mai a giocare sereno e tranquillo come vorresti». Rientravo a casa ed ero triste, vuoto. Sapeva che era quello. Non mi chiedeva neanche più cosa avessi".

"Se in quelle sere ho pensato di smettere?Sì, una volta sì. Una mezza volta - ha confessato il centrale di proprietà del Milan -. Quando non riesci a venire a capo di una situazione da tanto tempo, la soluzione più estrema ti sembra la migliore. Ma non potevo mollare. Cazzo se non potevo. Io volevo essere felice, quella roba lì non mi bastava. Avevo lottato una vita per essere lì, non potevo appallottolare e gettare tutto nel cestino come un pezzo di carta pieno di parole a caso. Ero io a dovermi togliere la nebbia dalla testa. Mi sentivo limitato. Dovevo uscirne. Era un obbligo nei miei confronti e quelli della mia famiglia. Quel maledetto circolo vizioso doveva pur finire, prima o poi". E a Venezia sembra aver trovato il suo Paradiso personale. Milan, duello con la Juventus per un top player in Serie A. Le ultime >>>

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