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Milan-Lazio, Legrottaglie racconta: “Ero paralizzato. Ora ho una cicatrice sul midollo”

Milan-Lazio, Legrottaglie racconta: “Ero paralizzato. Ora ho una cicatrice sul midollo” - immagine 1
Intervistato dai microfoni di Fanpage.it, l'ex calciatore del Milan Nicola Legrottaglie, ha voluto spendere alcune parole sulla sua carriera: dallaJuventus ad Allegri per poi passare a quel Milan-Lazio...
Alessia Scataglini
Alessia Scataglini

Intervistato dai microfoni di Fanpage.it, l'ex calciatore del Milan Nicola Legrottaglie, ha voluto spendere alcune parole sulla sua carriera calcistica, toccando varie tematiche: dal periodo alla Juventus con Del Piero, a quel Milan-Lazio che gli ha cambiato la vita. Ecco, di seguito, tutte le dichiarazioni dell'ex calciatore rossonero, autore di diversi libri a tema calcistico:

Ex Milan, Legrottaglie si racconta: "La fede la chiamata più importante. Quel Milan-Lazio..."

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Sulla fede religiosa: “La chiamata che mi ha cambiato la vita? Quella che ho sentito nel cuore: è stata la mia conversione, la chiamata di Dio. È arrivata senza numero, senza prefisso. Veniva dall’alto. È stata la più bella. Poi, sul piano terreno, c’è la chiamata della Nazionale, una gioia immensa"


Sempre sulla fede, Legrottaglie ha continuato: Una volta Ibrahimovic mi disse: ‘Nicola, Gesù non ti fa vincere i campionati. Io sì’. Era una battuta, il suo modo di scherzare. È sempre stato simpatico e con lui ho vissuto momenti davvero belli. A quel punto la mia immagine legata alla fede era ormai conosciuta nel mondo del calcio, e non mi è mai pesato: preferisco essere etichettato come quello che parla di Gesù, piuttosto che come qualcuno che non rispetta certi valori. Lui è Ibra, vive a modo suo, io vivo al mio. È vero che mi ha fatto vincere degli scudetti, perché è un fuoriclasse. Ma credo anche che lui abbia vinto perché c'ero anch’io, e perché dietro di me c’era Qualcuno che mi proteggeva. Diamo a Cesare ciò che è di Cesare, ma anche a Dio ciò che è di Dio".

Su Ibrahimovic: "Spiegare davvero Ibra però non è semplice, perché lui va visto dal vivo. Mi ricordo una scena che rende bene l’idea: spesso noi indossiamo delle maschere che servono a proteggerci, magari per il nostro passato o per fragilità che non sappiamo nemmeno di avere. Secondo me, quando Ibra ostenta quel suo modo ‘da comandante', in realtà sta coprendo anche alcune sue debolezze. Con il tempo le ho conosciute, ed è la parte più bella. L'immagine che mi è rimasta impressa è lui a Milanello dopo un allenamento, mentre giocava con i figli: affettuoso, dolce, presente. Vederlo così, con i bambini e con la moglie, ti fa capire chi è davvero. Quello è l’Ibra autentico. Con i compagni, certo, era diverso: più rigido. Quando sbagliavi non te la lasciava passare, ti stuzzicava, ti ‘rompeva' un po'. Ma lo faceva per stimolarti. Per alcuni funzionava, per altri magari no".

Sul peso della maglia della Juventus: "Quanto pesa la maglia della Juve? Tanti chili, davvero tanti, rappresenta un popolo intero. Ovunque vai trovi juventini, ovunque percepisci un attaccamento incredibile a quei colori. Ricordo perfettamente che, appena uscito dall’ufficio della Juventus dopo aver firmato con la Triade, la mia vita non è stata più la stessa. Da quel momento la gente ti riconosce ovunque, si ricorda di te anche all’estero. Lì ho capito quanto pesa davvero quella maglia, quanta storia e quanta responsabilità porta con sé. Ogni gesto, ogni parola diventa visibile al mondo, non più solo al quartiere o alla città, come accadeva quando ero al Chievo. Tutto si amplifica"

Sul rapporto con i suoi compagni di squadra: “Con Chiellini mi sono trovato benissimo: era il mio opposto, la mia ‘acqua santa'… come si dice. Proprio perché così diversi, ci completavamo alla perfezione. Fuori dal campo parlavamo di temi seri, profondi. In campo bastava uno sguardo per capirci. Io aiutavo lui in certi aspetti, e lui – con la sua forza e la sua presenza – compensava ciò che a me mancava. È stato il compagno più complementare che abbia mai avuto. Montero era un altro mondo. Estroverso, imprevedibile, con una vita tutta sua, ma in campo mi ha mostrato cosa significa trascinare una squadra. Durante le partite era come avere una telecronaca in diretta: ti commentava ogni giocata, ti incoraggiava, analizzava la tua prestazione più della sua. Ho condiviso lo spogliatoio con Buffon, Del Piero, Nedved, Camoranesi ma quando vivi ogni giorno insieme a loro, smetti di vederli come Del Piero o Buffon: diventano Gigi, German, Alex. Persone, non icone. È vero che si parla sempre dei grandi nomi, ma in quella Juventus oltre a me c'erano anche Tacchinardi, Birindelli, Pessotto… giocatori forse meno celebrati, ma fondamentali per far rendere al massimo i campioni”

Su Calciopoli, ha dichiarato: " non dividere quelle due squadre, quella in B e quella vincente negli anni a seguire. Anzi, ritiene che proprio da quella Serie B è nata l’identità che ha portato poi ai nove scudetti consecutivi. Abbiamo messo le fondamenta. Quella Juve, ferita ma viva, ha creato la cultura della rinascita".

E sul momento attuale della Juventus: "Il calcio è ciclico: vinci per nove anni, poi ti fermi. L'identità è ciò che resta anche quando non vinci. La Juve è vincente sempre, anche quando arriva terza, anche quando retrocede. L'identità vincente non dipende dal risultato, ma da ciò che sei"

Legrottaglie: "Allegri? Bravo nella gestione. Sa come avvicinarsi ai giocatori"

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Sui diversi allenatori: "Delneri è stato innovativo: mi ha insegnato cose che nessuno mi aveva mai insegnato. Ranieri, una persona equilibrata. Lascia un profumo, una presenza che ti manca quando non c'è più. Deschamps è un grande osservatore. Parla poco, ma vede tutto. E quando deve darti qualcosa, te la dà. Zaccheroni è uno dei più buoni che abbia mai conosciuto, un uomo alla mano, quasi paterno. Mi ricorda Ancelotti, anche se non l’ho mai avuto. Ciro Ferrara è un amico. Ho giocato con lui e poi mi ha allenato. Forse non aveva ancora l’esperienza, ma la sua umanità era contagiosa. Montella? Lui deve ringraziare me, e io devo ringraziare lui. Era alla prima esperienza, aveva idee avanti anni luce. Ci faceva giocare bene e noi lo abbiamo aiutato a esprimere quel talento. Allegri è… allegro. È bravo nella gestione dell’uomo. Sa come avvicinarsi ai giocatori, sa scherzare, stimolare, alleggerire lo spogliatoio. Pochi allenatori sanno gestire i campioni come lui".

Su Cassano e un ricordo di quando era al Milan: "Cassano è sempre stato un personaggio che fa discutere, anche quando scherza, ma io gli ho sempre voluto bene. Ho tantissimi aneddoti su di lui… il primo risale a una Juventus–Sampdoria. A fine partita, in dialetto, mi fa: 'Colì, colì, dammi la maglia, dammi la maglia! L’unica maglia che voglio è la tua, perché quella la faccio pregare ai santi, alla Madonna'. L’ho guardato, ho riso e gli ho dato la maglia da portare a sua madre. Una scena simpatica, tipica di lui. Poi c’è stato il mio primo giorno al Milan. Sotto la doccia si era creato un gran caos con tutti i brasiliani, parlando di fede e religione. Cassano mi fece una battuta per stuzzicarmi dopo aver letto qualche mia intervista. Io rispondo, lui mi prende un po’ in giro… e all’improvviso arrivano tutti i brasiliani, che essendo credenti prendevano le mie parti contro di lui. Si è scatenato un putiferio: gente che entrava a capire cosa stesse succedendo, discussioni animate, risate"

Su Milan-Lazio del 2011: "Feci una caduta brutta dopo uno scontro con Kozak. Avevo iniziato a giocare bene, molto bene, e sono convinto che se avessi continuato la mia esperienza al Milan sarebbe andata diversamente. Quando sono caduto e ho riaperto gli occhi, il primo pensiero è stato di paura: non muovevo niente, ero paralizzato. Le gambe e le braccia andavano ognuna per conto proprio, non avevo controllo. E quando ho visto la faccia del medico arrivare con la barella mi sono spaventato ancora di più: era diventato bianco. Mi ha chiesto: 'Ti muovi? E io: No'. Lì ho capito che qualcosa di serio era successo. Poi però, dentro di me, si sono affacciate le cose che avevo maturato spiritualmente. Mi sono rasserenato.

Ho pensato: 'Non succederà ciò che sto vedendo, ma ciò che mi è stato promesso'. E mi sono fatto forza. Dopo quattro minuti, mentre andavamo in ospedale, ho iniziato a sentire formicolii. Lì ho davvero ringraziato Dio, perché ancora oggi ho una cicatrice sul midollo: c’è stata una lesione vera e propria, che ho scoperto solo tre anni dopo. Ancora oggi, a distanza di anni, quando vedo quelle scene penso sempre alla stessa cosa: 'Come ho fatto a provare a prendere quella palla di testa che stava a un metro da terra?' Non è un gesto che avevo mai fatto. Mi sono abbassato per appoggiarla di testa al mio centrocampista, e proprio in quel momento lui è arrivato correndo e mi ha colpito con il ginocchio. Il collo è andato indietro e lì mi sono fatto male. Kozak si è scusato subito, in campo. Poi non ci siamo più sentiti"