Sul papà calciatore: “Mio padre smise di giocare un anno prima che io nascessi, nel ’73, quindi, dal punto di vista calcistico, lo conosco solo per averlo visto in vecchi filmati. Ma, se mi sono perso i suoi successi di calciatore, ho potuto vivere ed essere orgoglioso di quelli che, come persona, ha avuto fuori dal campo, dove è sempre stato considerato un gentiluomo. Agli occhi degli altri era umile, rispettoso, pacato, disponibile. E poi era molto alto, elegante in maniera inappuntabile… Sembrava circondato da un’aura, da una sorta di energia… Emanava una specie di tranquilla autorevolezza. Questo è ciò che tra smetteva a chi gli stava intorno e che gli altri testimoniavano a me bambino. Era considerato dai tifosi del Milan una leggenda, e non è un termine che uso tanto per dire“.
Cudicini prosegue: “Da piccolo ne ero un po’ anche intimidito. Parliamo di tempi in cui la famiglia tradizionale era composta da un padre lavoratore – il mio, dopo il calcio, aveva aperto una ditta di moquette e rivestimenti di pavimenti – e una madre che si occupava della casa e dei figli. Papà non l’ho avuto accanto tantissimo insomma, ma oggi capisco quanto tempo mi abbia dedicato in realtà. Per esempio tutti i fine settimana, quando mi accompagnava alla partita che avrei giocato in campi da calcio sperduti nell’hinterland milanese. Ricordo i viaggi in macchina, i pareri e le emozioni che ci scambiavamo prima e dopo. Era un tempo tutto per noi. Mio padre c’è stato sempre, ma non si è mai inserito nel rapporto trame e i miei allenatori, nonostante avesse i titoli per farlo. Il consiglio che mi ripeteva più spesso? Quello di ascoltare l’allenatore, appunto, e di lavorare duro, sempre. Aveva ragione: è stato proprio grazie al lavoro, che ho potuto andare oltre i miei limiti tecnici“
Cudicini ha poi continuato: “Con un padre così, il mio destino di portiere era già scritto? No, macché. Successe in quinta elementare. Organizzai insieme ad altri un torneo a 7 e il giorno della prima partita, mentre tutti sceglievano le maglie, io rimasi impegnato fino all’ultimo in questioni, diciamo così, burocratiche. Quando mi affacciai sulla cesta per prendere una maglietta, vidi che era rimasta solo quella da portiere. Non ricordo se qualche compagno o qualche genitore mi disse: “Vabbè, col cognome che hai, se qualcosina almeno hai preso da tuo padre, tanto male non devi essere”. Risposi: “Va bene, non c’è problema”. Finì in disastro, nel senso che arrivammo ultimi. Eppure, la squadra che aveva vinto il torneo contattò mio padre perché ci andassi a giocare, non so se perché tutto sommato il mio in porta l’avevo fatto o perché l’allenatore aveva ragionato allo stesso modo degli altri sul cognome. Era la San Giuseppe, squadretta oratoriana: comincio a 7, passo a 11, e a quel punto leggenda narra che, sempre mio papà, ricevette una telefonata dall’Inter, che mi invitava a un provino. E lui…? In famiglia vediamo solo rossonero, quindi chiamò il Milan: “Guardate che dovrei portare mio figlio a fare un provino con l’Inter…” e dall’altra parte risposero: “No, no, portalo prima qua”. La mia avventura nel grande calcio parte così“.
Ha poi concluso dicendo: “Chi i migliori oggi? Donnarumma lo metto senz’altro, e non soltanto perché è italiano. Alisson è sicuramente un altro portiere che ha dimostrato negli anni costanza e, per un portiere, la costanza è fondamentale. E poi Maignan, e non per un fatto di cuore: l’anno scorso ha attraversato un paio di mesi di crisi, ma sai sempre cosa ti garantisce, e l’affidabilità è requisito fondamentale. Un ritorno in Italia? Ho una figlia di 11 anni che vive a Londra, per me la cosa più importante è restarle vicino. E ho la fortuna di lavorare in un club tra i più importanti al mondo e nel campionato più bello. Però se mi chiamasse il Milan sarebbe difficile dire di no“
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