João Félix, al suo arrivo, portava con sé l'etichetta di "predestinato", con lampi di un talento indubbio. Ma il calcio, fortunatamente o sfortunatamente per chi ama le narrazioni precostituite, non è una semplice equazione matematica dove il talento grezzo si traduce automaticamente in successo. Servono contesto, maturità, la capacità di sopportare la pressione costante e, soprattutto, quella fame insaziabile di migliorarsi che ha sempre contraddistinto i veri campioni.
E forse è proprio su questo terreno che il paragone con Kakà ha mostrato le sue prime, insanabili crepe. Mentre il brasiliano cresceva sotto i riflettori di San Siro, diventando l'anima di un Milan vincente, Félix ha faticato a trovare una sua dimensione definitiva, a imporsi con la continuità e la leadership che ci si aspettava da un giocatore del suo calibro. Le sue qualità tecniche non sono mai state in discussione, ma la sua incostanza, le difficoltà tattiche e, a tratti, una certa fragilità emotiva, lo hanno tenuto lontano da quella consacrazione che molti, forse con troppa fretta, gli avevano pronosticato.
Oggi, mentre Kakà è giustamente celebrato come una leggenda del calcio, un modello di eleganza e efficacia, il percorso di João Félix è ancora in divenire, costellato di alti e bassi, di promesse non del tutto mantenute. Non si tratta di sminuire il valore del portoghese, un giocatore con indubbie qualità, ma semplicemente di riportare il dibattito su un piano di maggiore realismo.
Quel "qualche folle" che azzardava il paragone, probabilmente animato dalla speranza di trovare un nuovo idolo, si è dovuto arrendere all'evidenza che certi paragoni sono non solo prematuri, ma intrinsecamente sbagliati. Kakà era un unicum, un giocatore che ha lasciato un segno indelebile nella storia del calcio per la sua completezza e la sua capacità di fare la differenza nei momenti cruciali.
Joao Félix ha ancora tempo per scrivere la sua storia, per trovare la sua strada e per dimostrare il suo valore, ma non al Milan. La lezione che ci lascia questo aneddoto è chiara: il talento da solo non basta, e il paragone con un campione come Kakà è un fardello troppo pesante per essere caricato sulle spalle di un giovane, per quanto promettente. Il campo, giudice supremo, ha emesso la sua sentenza, sussurrando un lapidario: "No, non era Kakà". E forse, in fondo, era meglio così. Ogni giocatore ha il diritto di costruire la propria leggenda, senza l'ingombrante paragone con un'icona che ha fatto la storia. LEGGI ANCHE: Inter-Milan, il derby dei nervi saldi: rossoneri ancora imbattuti nella stracittadina >>>
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