Su chi è Moggi oggi: “Un nonno a cui il nipote più piccolo chiede se può portare a casa gli amici dell’università per conoscermi. Un nonno che passa gran parte della giornata a dare consigli sui giocatori da prendere: consigli a tutti, anche a dirigenti o tecnici più di moda”.
E' un nonno pentito?: “Sono passato per arrogante, non ho capito che un certo modo di essere, soprattutto in una realtà come quella torinese, non paga, anzi: ho sempre amato scherzare o provocare”.
Se aveva pensato di lasciare prima: “Eravamo diventati ingombranti, vincevamo sul campo e non solo: gli azionisti aumentavano i loro dividenti. Quando facemmo firmare il contratto a Capello, dissi a Giraudo di chiamare Umberto (Agnelli, ndr): non c’era più, se ne era andato. Antonio, alla guida, si girò verso di me: “Per noi è finita...”. Il significato di quelle parole lo capii due anni dopo”.
Un ricordo sui giocatori o squadre da ricordare: “Zola. Lo presi a Napoli come vice Maradona: nessuno voleva scommettere su di lui, lo vidi a Campobasso, giocava per la Turris e non fece bene, ma si capiva che aveva tecnica da vendere e personalità. “La maglia di Diego? Una come tante altre”, rispose dopo aver sostituito l’argentino e aver segnato con il Lecce. Maradona si arrabbiò”.
Su Maradona: “A Mosca si presentò il giorno dopo: troppo facile mandarlo in tribuna, al caldo, lo misi in panchina sotto la neve. Mai trattare i campioni in modo diverso, perdi credibilità agli occhi del gruppo”.
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L'aneddoto legato a Trezeguet (bastone e carota): “Diciamo così. Diciamolo a David (Trezeguet, ndr): in discoteca si poteva andare solo quando non c’erano le coppe a metà settimana, mi trovò all’ingresso dell’Hollywood, non ci ha più messo piede”
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