Ricorda la prima scommessa? «No. È diventata un’abitudine a 17-18 anni. E la normalità quando ha cominciato a prendermi tanto tempo. Il fatto che fosse online mi oscurava da tutto, mi chiudevo nel mio guscio».
Sempre stato introverso? «Con famiglia e amici no. Con i compagni e in ambito sportivo sì. Non per diffidenza, ma abitudine: fin da ragazzino ero sempre il più piccolo. È difficile che crescere con gente più grande ti faccia essere estroverso. I primi anni di Brescia mi isolavo, non condividevo i miei pensieri con nessuno».
"Quando una persona si trova in quella situazione, dirà sempre che non è malata"
—Ha sempre voluto fare il calciatore? «È stato uno dei primi sogni e mi è bastato: gli altri li ho lasciati stare. Da bambino, nel Lombardia1 a Milano, ero il più bravo e a Piacenza anche, malgrado fossi il più basso. Invece al Brescia ho dovuto superare delle difficoltà. Ma la passione, il divertirmi e riuscire a fare cose che gli altri faticavano a fare, mi ha permesso di capire che ero più bravo della media».
Quando ha avuto la consapevolezza che le scommesse stavano diventando una dipendenza? «Credo in realtà di non averla mai avuta. Quando una persona si ritrova in una situazione del genere, è difficile chiederle se è malata. Ti dirà sempre di no. Anche se sente che non è così. Non può pensare di avere quel problema, quindi tende a nasconderlo».
In questa rimozione inconscia contava la grande disponibilità economica? «Nei mesi lontano dal campo ho passato tanto tempo con lo psicologo. Il suo lavoro era farmi capire come ci ero caduto. Di solito lo si capisce nel momento in cui si perde qualcosa: famiglia, lavoro, stipendio. Invece nel mio caso la disponibilità economica non mi ha fatto accorgere della serietà della cosa. È stato un lavoro di recupero difficile. Non potevo prendere farmaci specifici, perché col 95% di quelli sarei risultato positivo all’antidoping, così è stato tutto un percorso mentale: durato mesi, con psicologo e psichiatra».
Ex Milan, Tonali: "Ho capito che pagavo per quello che avevo fatto"
—La squalifica è stata decisiva? «Nei primi due mesi ero staccato da tutti, poi rientrando nella vita, allenandomi tutti i giorni senza avere la partita, ho capito che pagavo per quello che avevo fatto».
Quanto l’ha aiutata l’Inghilterra? «Tanto. Compagni e allenatore mi hanno sempre tenuto dentro, come staff e dirigenza. I tifosi del Newcastle e quelli avversari non mi hanno mai giudicato. Qui rispettano i problemi di tutti, non calcano la mano e cercano di aiutarti. L’aiuto più grande me l’hanno dato il professore Gabriele Sani, primario del reparto di psichiatria dell’ospedale Gemelli di Roma, i miei familiari, Giulia, Andrea Romeo e la sua famiglia che sono qui accanto a me, i miei procuratori Marianna Mecacci e Giuseppe Riso. Questa situazione ha rinsaldato il rapporto».
Il telefonino può essere una droga? «Nell’ultimo anno non l’ho avuto per 6 mesi. Certo ho provato un senso di libertà: la sensazione di essere a posto anche senza. Prima non potevo fare da stanza a stanza, oggi lo prendo quando esco di casa e lo lascio rientrando. Lo riprendo solo se mi chiamano mamma, papà o qualche mio familiare. E coi social il rapporto è minimo».
"Vi racconto di quell'incontro che feci in una fabbrica a Newcastle"
—Com’era la vita durante la squalifica? «Il primo mese ero in viaggio tra Italia e Inghilterra. Non ho mai sfiorato la depressione, perché ho lavorato subito su me stesso. Tre colloqui a settimana online e uno in presenza ogni mese. Non ne ho saltato uno. Si parlava sempre del giorno prima, con tre lavori specifici: uno sulla mia persona, l’altro sul gioco d’azzardo e l’ultimo era il compendio. I 16 incontri organizzati dalla Figc li ho fatti in Italia: dopo i primi 6 mesi della squalifica, sono stato a Bari, Roma, Firenze, Milano, Verona. Incontravo i giovani delle squadre e gli staff».
Quali domande le facevano di più? «Dai ragazzi di 12-13-14 anni le domande sono tipo chi sia il giocatore più forte contro cui hai giocato. Gli adulti ti chiedono i motivi per cui arrivi a fare certi errori. Nelle scuole calcio volevano conoscere il mio segreto per sfondare e io so che non serve essere solo bravo: a mille ragazzi talentuosi capita di perdersi».
L’incontro più emozionante? «A Newcastle, in una fabbrica che produce coperture per i tubi del gas nell’oceano. Ci sono andato perché in Inghilterra il gioco d’azzardo è molto diffuso. C’è stato chi mi ha detto, a diversi mesi dalla squalifica: “Ho smesso di scommettere per quello che è successo a te”. Erano ludopatici da anni. Un italiano mi ha raccontato che un dipendente guadagna 2000 sterline al mese, ma a volte ha bisogno di fare gli straordinari per mantenere la famiglia: butta troppi soldi nel gioco».
Ex Milan, Tonali: "All'Inter non sarei stato felice. Maldini ..."
—Ora si sente un modello? «Un ludopatico non ne parla, ma se si sblocca poi riesce a impegnarsi. Parlare è la cosa più difficile. Non riuscirai mai a farti vedere come un perdente, ma l’unico vero aiuto è aprirsi».
Ripensa spesso al passato? «Mi è capitato di pensare a quando potevo andare all’Inter. Non l’ho mai accettato: non perché non sia una squadra forte, ma non mi reputavo felice al 100%. Ogni giorno se ne parlava. Sentivo il mio procuratore e i dubbi erano grandi. La montagna che non volevo scavalcare. La chiamata di Paolo Maldini ha cambiato tutto, mi ha fatto felice e ho detto: “O vado al Milan o resto al Brescia”. Me l’ha trasmesso mio papà, questo legame col Milan. Facevo colazione con la tazza rossonera di Gattuso e quando si è rotta ho costretto mia mamma a sistemarla pezzettino per pezzettino. Quando il trasferimento si è concretizzato, ho chiesto a Rino il permesso di indossare la sua n° 8».
Chi è Tonali nella sua seconda vita? «Uno che riesce a parlare con tutti: con chi ha bisogno di aiuto e con chi non ne ha. Una persona più disponibile e generosa. Non più solo dentro il campo». LEGGI ANCHE: Calciomercato Milan, clamoroso ritorno di Tonali? Sì, ma a due condizioni >>>
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