Jack Bonaventura ha rilasciato una lunga e interessante intervista alla Gazzetta dello Sport, in cui ha toccato diversi aspetti del suo passato, del suo futuro, e soprattutto della situazione attuale al Milan.
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Bonaventura: “Manca leggerezza nello spogliatoio. Cosa non sopporto? Le critiche”
Jack Bonaventura ha rilasciato una lunga e interessante intervista alla Gazzetta dello Sport
Ecco le sue parole sul suo soprannome: "Perché Jack? Boh, mi chiamarono così i compagni a Bergamo, ma senza un motivo specifico. Tanto, a parte Poli, nessuno mi ha mai chiamato Giacomo: per i miei, mia sorella, gli amici ero Già, oppure Giacomì e secondo me oggi c’è chi non sa neanche come mi chiamo davvero".
Sul giorno in cui arrivò al Milan: "Gli ho detto proprio così: 'Direttore, è uno scherzo vero?'. Non era uno scherzo. Le sei di pomeriggio di quell’ultimo giorno di quel mercato, Ausilio ci dice che il discorso Inter è chiuso, mentalmente chiudo le porte a tutte le altre offerte e per tre ore, chiuso negli uffici di Percassi in centro a Milano, risintonizzo la testa: 'Dai Jack, stai all’Atalanta un altro anno'. La telefonata di Pierpaolo Marino arriva alle nove: 'Avete già parlato con qualcun altro? Ho chiamato Galliani: ci aspetta a Casa Milan'. Io ho pensato davvero che mi prendesse in giro. Poi si è molto romanzato sulle mie lacrime al momento della firma, ma più che commozione era stress: era stata una giornata pesantissima, piena di discorsi che un calciatore non dovrebbe sentire, e la gente non si rende conto di quanto il mercato per noi sia anche logorante".
Sull'età a cui è arrivato in una big: "Diciamoci la verità: nel calcio c’è molta tendenza all’omologazione, il rischio di assomigliarsi tutti è alto. Se vuoi distinguerti puoi farlo solo con le tue scelte: alla fine, ognuno è quello che desidera essere, basta volerlo. Se fai una scelta che ti cambia la vita, dipende solo dalla forza che hai di prendere quella decisione. Il mio destino l’ho preso in mano a 15 anni, quando sono andato via di casa per giocare a Margine Coperta e mi sono detto: 'Ora non puoi più deludere nessuno: né te stesso, né gli altri'. Ho pensato molte volte, dopo, se arrivare solo a 25 anni in una grande squadra fosse stata una delusione o semplicemente destino: mi sono risposto che poteva succedere prima, però magari non sarei stato pronto a livello di esperienza, di furbizia. Se fai un errore al Milan c’è qualcuno che ci mette una pezza, se sbagli all’Atalanta prendi gol: almeno sono arrivato qui molto 'allenato', ecco".
Cosa manca a questo Milan: "Solo un po’ di leggerezza dentro lo spogliatoio".
Su come è cambiato nel tempo: "Se ripenso a come e quanto sentivo le partite i primi anni a Bergamo, oggi mi sembra una passeggiata: vivo il calcio con la leggerezza di chi ha capito che ci sono troppe cose che determinano un risultato e che conta solo concentrarsi sulle cose con le quali lo determini tu. Ora cerco ancora la perfezione, ma in un altro modo. Sono stati due gli allenatori chiave per la costruzione della mia personalità: Francesco Rocca e Colantuono, che mi rimproverava fino alle lacrime e mi teneva fuori apposta per vedere come reagivo".
Cosa non sopporta: "Non sopporto le critiche a prescindere, solo per il fatto di giocare nel Milan: non perché le subisco, ma non vedo il motivo per cui si debba accettare di sentirsi dire qualunque cosa da chi guarda le cose da fuori, e non è lì in campo a farsi il mazzo. Io certe cose le accetto solo dal mio allenatore o da grandi giocatori, però poi ci penso e mi dico che in fondo è uno stress sano, se sei a certi livelli fa parte del calcio. E che se non fossi stressato sarei meno forte, perché alla fine darei di meno".
Sul suo idolo: "Quando smetterò di giocare, vorrei essere tranquillo com’era Del Piero il giorno dell’ultima partita con la Juve nel suo stadio. L’addio del mio idolo fin da quando ero bambino, e io c’ero: gli ho stretto la mano quando è uscito, almeno quello, ed ero più emozionato di lui. È stato un giocatore che ha messo d’accordo tutti, dunque così è diventato un giocatore di tutti. Non è stato l’unico a emozionarmi, ma l’avevo scelto perché forse era il ‘più dieci’ di tutti i dieci che avevo sempre studiato e spiato".
Sullo spirito di sacrificio: "Sarò masochista ma mi piace lavorare duro, nel senso di faticare fisicamente quando faccio il mio lavoro: se finisco un allenamento o una partita stanco morto mi sento felice, perché ho la sensazione di aver dato tutto".
Su un possibile futuro da mister: "Fare l’allenatore di sicuro non è una storia tranquilla, eppure mi intriga: lo so che non è scontato che un calciatore dica che gli piacerà allenare, ma oggi ho in testa questo. E mi preparo studiandoli, gli allenatori. Se devo chiedere qualcosa sul mestiere non chiedo a loro, semmai a quelli del loro staff, però mentre gioco provo ad analizzarli: come preparano le partite e il gruppo, il rapporto che scelgono con i giocatori, soprattutto i loro difetti e i loro errori. Prendo appunti mentali: credo mi serviranno quanto studiare a Coverciano".
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